di Bruno M. Bilotta *
Il mondo del diritto è così smisurato che nonostante millenni di tentativi di definirlo si ritorna sempre al punto di partenza, ossia alla domanda iniziale: che cosa è il diritto o meglio che cosa è diritto? E quanto più si evolvono e si moltiplicano gli studi al riguardo, visti dalle più diverse angolazioni scientifiche, tanto più ci si allontana da una soluzione, non diciamo, condivisa ma, in qualche misura e in qualche prospettiva, che abbia almeno un qualche elemento di comunanza: di questo non v’è traccia ancorché minima negli scritti che da millenni, appunto, agitano le menti di chi si è cimentato in questa impresa.
È forse che l’ottica del sostantivo e quella dell’aggettivo si rincorrono in una corsa forsennata in cui si perde di vista il punto di vista iniziale dell’uno e dell’altro ed entrambi confluiscono in un unico significato e si confondono l’uno nell’altro?
Tendiamo a non escluderlo, anzi, a dire il vero, propendiamo fortemente per questa interpretazione.
Ma v’è una complicazione ulteriore, da non sottovalutare.
Oggi che l’ambito del diritto si è ampliato, nei suoi contenuti, enormemente rispetto al passato, ed anche ad un passato relativamente recente, al punto che, senza dubbio, il termine stesso non si può, e non si riesce a, declinare se non nella versione al plurale, cioè diritti, la prospettiva di una rivista che li accolga tutti, indistintamente, questi diritti, ci è parsa un’esigenza indifferibile.
Perché la necessità di aggiungere anche l’espressione diritti umani nella titolatura della rivista, quasi a mò di precisazione e di specificazione?
Ché forse gli ambiti dei diritti in generale e quelli dei diritti umani in particolare non si sovrappongono? Sì lo crediamo, per molti versi i due ambiti si sovrappongono ma assai più frequentemente nell’uso comune, e, meglio, nel sentire comune il secondo termine è più una specificazione del primo, ed assume un contenuto più ampio, ed anzi finisce per esserne il contenitore rispetto all’altro che ne è il contenuto.
Se è vero, come pare a noi che sia vero, che il termine diritti sia oggi ancora più di ieri talmente ampio da rischiare di perdere una sua connotazione specifica per acquistarne una più generale e persino più indeterminata, il richiamo ai diritti umani riporta l’espressione “diritti” nel suo ambito naturale, quello, cioè che invade ogni angolo della vita di ciascuno di noi sia come soggetti individuali che come soggetti collettivi. L’aggiunta dell’aggettivo “umani” la riempie di contenuti, quali che questi siano o possano essere, i più universali possibili, tali intesi e i più diffusi possibili.
Norberto Bobbio ha da par suo precisato magistralmente questo punto quando ha affermato che «il campo dei diritti sociali è in continuo movimento: siccome le richieste di protezione sociale sono nate con la rivoluzione industriale, è probabile che il rapido sviluppo tecnico ed economico porterà con sé nuove richieste che oggi non siamo neppure in grado di prevedere».[1]
Lo stesso filosofo torinese ha precisato che «i diritti elencati nella Dichiarazione [la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, n.d.r.] non sono i soli e possibili diritti dell’uomo, sono i diritti dell’uomo storico quale si configurava alla mente dei redattori della Dichiarazione dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, in un’epoca che aveva avuto inizio con la rivoluzione francese ed era approdata alla rivoluzione sovietica. Non occorre molta immaginazione per prevedere che sviluppo della tecnica, trasformazione di condizioni economiche e sociali, ampiamento delle conoscenze e intensificazione dei mezzi di comunicazione potranno produrre tali mutamenti nell’ordine della vita umana e dei rapporti sociali da creare occasioni favorevoli alla nascita di nuovi bisogni e quindi a nuove richieste di libertà e di poteri».[2]
Richieste di libertà e di poteri che si traducono in libertà di diritto e più precisamente in quella libertà del diritto al diritto che è l’anima essenziale di questa iniziativa editoriale.
Non possiamo non far nostre le parole di Norberto Bobbio quando ha affermato che «a chiunque si proponga di fare un esame spregiudicato dello sviluppo dei diritti dell’uomo dopo la seconda guerra mondiale consiglierei questo salutare esercizio: leggere la Dichiarazione Universale e poi guardarsi attorno. Sarà costretto a riconoscere che nonostante le anticipazioni illuminate dei filosofi, le ardite formulazioni dei giuristi, gli sforzi dei politici di buona volontà, il cammino da percorrere è ancora lungo. E gli parrà che la storia umana, per quanto vecchia di millenni, paragonata agli enormi compiti che ci spettano, sia forse appena cominciata».[3]
Crediamo che non vi sia angolo dei rapporti umani, da quelli più strettamente intersoggettivi intesi questi come rapporti fra singole persone a quelli più specificatamente plurisoggettivi, intesi come rapporti tra gruppi sociali più o meno ampi, sino ai rapporti fra Stati, che non ricadono sotto l’ambito dei diritti umani e delle loro dinamiche.
È evidente, in questa logica, che il tema dei conflitti intersoggettivi, intesi questi nei termini più ampi possibile, rientra a buon diritto sotto questa volta così vasta dei diritti umani, oltre che dei diritti e del diritto in senso stretto.
Dunque, una sovrapposizione tra l’espressione diritto e l’espressione diritti umani? Talvolta le due espressioni si sovrappongono ma senza dimenticare che l’espressione diritti umani sicuramente è avvolgente rispetto all’altra, quella senza la specificazione.
E dunque perché l’esigenza di una Rivista che copra questo ambito così vasto?
Chi come noi è abituato a sfogliare quasi quotidianamente elenchi ed indici delle più diverse riviste di quest’ambito conosce perfettamente l’esiguità, se non proprio la carenza, nell’orizzonte degli studi scientifici, di una rivista con una prospettiva sociologica o meglio di una prospettiva sociale del mondo dei diritti e dei diritti umani in particolare riferita all’Italia.
Preferiamo usare sempre la seconda delle espressioni, la prospettiva sociale, molto più che quella sociologica, perché crediamo fortemente che quest’ultima sia, almeno in parte, limitativa delle prospettive; la seconda, quella sociale, è decisamente più ampia e più onnicomprensiva e in ambito di rapporti talmente ampi da non avere confini e limitazioni la prospettiva sociale è decisamente preferibile da usare.
È questa la ragione per cui nella Rivista assai più frequentemente si parlerà di prospettiva sociale più che di prospettiva sociologica riferita al mondo dei diritti ed a quello dei diritti umani in particolare.
*Professore Ordinario di Sociologia Giuridica, della Devianza e del Mutamento Sociale nell’Università “Magna Græcia”
[1] N. BOBBIO, L’Età dei Diritti, Einaudi, Torino 1990, pag. 28.
[2] Ibidem.
[3] Ivi., pag. 44.